In attesa di riprendere di fare ciò che più ci piace in montagna, ancora una storia vera dalla valle di Susa.
La storia di Cichina
L’inverno del 28/29 fu uno dei più freddi del secolo scorso; la temperatura nel mese di febbraio scese vertiginosamente sino a raggiungere i 20-22 gradi sotto zero. Le viti ed i castagni furono le colture maggiormente colpite e ne soffrirono molto; nella notte si udivano provenire dai boschi i sinistri scricchiolii dei poveri rami di castagno colpiti nella loro linfa vitale; si aprivano scoppiando letteralmente prima di schiantarsi al suolo ai piedi della pianta madre.
Nel camposanto di Villar Focchiardo, a causa della spessa coltre gelata, erano numerosi i feretri dei deceduti che attendevano cristiana sepoltura. Ma il becchino doveva attendere l’attenuarsi del gelo per poter scavare le fosse. I camposanti allora non erano curati come ai giorni nostri e, qua e là, non essendoci l’ossario a volte affioravano miseri resti. Le croci, tutte in legno, tranne qualcuna in ferro, portavano il nome dell’estinto inciso su un foglietto di lamiera. Solo prima dei Santi la gente andava a togliere l’erba dalle tombe facendo un po’ di manutenzione e con un po’ di sabbia prelevata dai torrenti ne aggiustava i profili.
Per i bambini della borgata Piancampo, che passavano nei pressi del camposanto per andare a scuola, era un gioco salire su alcuni massi posti a ridosso del muro di cinta e da lì osservare le casse dei defunti a cui il generale inverno aveva rimandato l’abbraccio con la terra: “Quella è di quel tale – dicevano indicandole con il dito – quella è di tal altro…” . E così via.
Tra di esse vi era quella di Francesca Chiaudrero, classe 1854, meglio conosciuta come Cichina “la Ussa”, una vecchina originaria di Villarbasse ma da tanti anni residente a Pian del Roc una borgata posta poco sopra l’abitato di Villar Focchiardo. In valle venne quando sposò tal Giuseppe Chiaberto, già vedovo e più anziano di lei di ben trentasette anni; i due, più che marito e moglie, parevano padre e figlia. Probabilmente si erano conosciuti durante la bella stagione quando Giuseppe, in cerca di qualche lavoro stagionale, era stato ingaggiato da qualche cascina della piana di Villarbasse per la fienagione e per la mietitura del grano. Dopo le nozze Giuseppe portò la sua Cichina al Pian del Roc dove possedeva una modesta casetta. La mulattiera che sale dalla Preinera è ripida e faticosa e Giuseppe, conosciuto da tutti come Pinot, faceva strada recando sulle spalle il fagotto con le poche cose. Cichina non era abituata ai sentieri di montagna; si fermò un attimo a rifiatare e guardandosi intorno si chiese dove mai fosse capitata. A quel tempo al Pian del Roc vivevano, anche in inverno, sei famiglie. La casa di Pinot, tuttora esistente e ancora in buono stato, era a ridosso della bealera che attraversa la borgata. La grande stanza al piano rialzato veniva utilizzata come cucina e camera da letto ed era raggiungibile attraverso una scala esterna in pietra. Nella cantina sottostante vi erano due grossi tini dove Pinot pigiava l’uva della sua vigna, mentre in un altro fabbricato lì vicino vi era la stalla. In un cortile della borgata veniva ammucchiato il letame, mentre a ridosso delle case si alzavano i pergolati di uva nera da vino.
Una volta era usanza identificare tutte le persone o famiglie del paese attraverso soprannomi. Questi potevano derivare da una caratteristica fisica, da un mestiere, dal luogo di provenienza o semplicemente da quella ironia sottile, a volte anche pesante, che avevano alcuni individui nell’affibbiare gli “stranom”. Così, la forestiera Francesca Chiaudrero da Villarbasse, che era alta, magra, anche se non brutta, appena giunta in paese fu ribattezzata Cichina “la Ussa”, cioè Cichina l’aguzza. Pinot, nonostante fosse avanti con gli anni, trascorse con la sua Cichina circa vent’anni di vita semplice e dura, lavorando la campagna e allevando alcune capre: un’esistenza da poveri. Si tirava a campare e la miseria era di casa. Con quel matrimonio Pinot si era almeno assicurato qualcuno che provvedesse a lui nella vecchiaia; infatti campò raggiungendo i 92 anni. Quando giunse la sua ora però la morte non lo colse di sorpresa: asseriva di conoscere la data della sua fine. All’origine di tutto vi era un libro di preghiere che i due coniugi recitavano tutti i giorni e che avrebbe condotto a conoscere il giorno della propria dipartita, anche se se la storia di questo percorso religioso è avvolta nel mistero. Di fatto per Pinot l’ultimo giorno di permanenza su questa terra arrivò l’8 luglio 1909. Il vecchio contadino si trovava in montagna nei pressi del Pian dla Funtàna a pascolare le capre. Sentendo approssimarsi la fine si coricò nell’erba; la vita stava sfuggendo, ma non ebbe paura, era ciò che attendeva da un po’. Nei prati circostanti, vi erano alcuni bambini delle Tampe con le proprie bestie al pascolo. Notarono il vecchio Pinot disteso e immobile e si avvicinarono premurosi, ma l’uomo li scaccio via. Corsero allora spaventati fino a casa raccontando ai loro parenti il fatto. Quando i montanari giunsero al Pian dla Funtàna Pinot era già spirato: la profezia si era compiuta.
Cichina, rimasta sola nella casa di Pian del Roc, continuò a tirare avanti con quel poco che disponeva. I prodotti dell’orto, quando era stagione, qualche gallina, due capre che portava a pascolare nei pascoli comunali destinati alle mucche. Questo era rigorosamente vietato, come portarle nei boschi dove scorticavano le piante.
Cichina non ebbe figli da Pinot e dopo la scomparsa dell’anziano marito le fu affidato un bambino.
Si chiamava Igino ed era nato nel 1912. A quel tempo si usava dire che era “dll’Uspedal”, cioè di quell’istituto religioso di Torino che accoglieva i bimbi non riconosciuti o abbandonati. Chi prendeva in famiglia e allevava uno di questi bambini riceveva dallo steso ente un compenso in denaro. Così non era raro vedere famiglie contadine già numerose che “adottavano” uno di questi bambini proprio per riceverne in cambio un aiuto economico. Quei soldini che riceveva per allevare questa creatura erano per Cichina una sicura fonte di sostentamento. Ma lei voleva bene a quel bambino e lo allevò come un figlio dandogli tutto il suo amore. Fattosi grande, Igino scese in paese a lavorare come garzone in una cascina. Salutò mamma Cichina ringraziandola per tutto ciò che aveva fatto per lui e se ne andò per la sua strada. Era oramai passato parecchio tempo da quel giorno che era giunta a Pian del Roc da Villarbasse e così Cichina si ritrovò di nuovo sola nella casetta lasciatale in eredità dal marito.
La vita continuava a trascorrere molto semplicemente, cadenzata dallo scorrere delle stagioni. Poi giunse il tremendo inverno del 1928/29. A pian del Roc l’acqua della bealera proveniente dal rio Frangerello si era trasformata in un serpente di ghiaccio e per i loro usi quotidiani, non che per abbeverare gli animali, la gente della borgata doveva munirsi del bàsu, bastone appoggiato sulle spalle con due secchi all’estremità e recarsi ad attingerla alla fontana arpòsa, dove alcune stille d’acqua ancora resistevano al rigido abbraccio del gelo. Per riempire il mastello ci volevano ore e si faceva a turno anche durante le tremende ore notturne per andare a prelevarlo.
Il pomeriggio del 12 febbraio, era un martedì, Cichina, dopo essersi coperta alla bell’e meglio, si mise in spalla il suo garbin e scese in paese per comperare del pane. Poi, sulla via del ritorno, si fermò a salutare una sua conoscente che stava alla Preinera a pochi passi dall’inizio della mulattiera che porta a Pian del Roc. “ Oh, Cichina - Disse Ernesta quando la vide – vin sài chi piuma lu cafè” e si mise a scaldare sul fuoco il barachin con la nera bevanda, un tempo giudicata preziosa e consumata con parsimonia. La vecchina di Pian del Roc entrò in cucina, sfilò il garbin dalle spalle e si accomodò. Scambiarono quattro chiacchiere discutendo del tempo; poi Cichina, riscaldata dal focolare e confortata dal caffè, non volle più intrattenersi avendo premura di rientrare a casa prima di notte. L’amica, visto che la sera scendeva gelida e tagliente, consigliò all’amica di passare la notte a casa sua. Ma Cichina non volle sentir ragioni perchè preoccupata per le capre che dovevano essere foraggiate. Terminato di sorseggiare il caffè, posò la tazza sul tavolo e alzatasi raccolse da terra la gerla e la sistemò sulle spalle; poi annodò il foulard sotto il mento, ringraziò dell’ospitalità e uscì. Appena oltrepassato l’uscio un’aria tagliente la investì avvolgendola. Si strinse le spalle e lentamente imboccò la via di casa. Ernesta, nel chiudere la porta, diede un ultimo sguardo compassionevole a quell’esile figura che pian piano scompariva nel bosco.
Nelle prime ore del mattino del giorno seguente, Pietro un ragazzo di Pian del Roc, scendeva in paese lungo la mulattiera. Il rumore degli zoccoli chiodati era l’unico segno di vita nel bosco piegato dalla gelida notte oramai trascorsa. Quando giunse al Pisài, località in cui sgorga sempre una piccola sorgente, poco prima della mulattiera che porta alle Tampe, vide qualcosa alla base di un castagno che ancora oggi si erge sul fianco del sentiero lastricato. Quando fu a pochi passi riconobbe Cichina. Era morta. Con le ali ai piedi Pietro scese di corsa al municipio e diede l’allarme. Subito sul posto giunsero la guardia comunale, alcuni paesani e i carabinieri. Anche un gruppo di scolari, saputo l’accaduto, e per nulla intimoriti, si recò al pisài per vedere ancora una volta la vecchina magra e spilungona irrigidita dal gelo e dalle spire della morte. La sfortunata era seduta su di un sasso ai piedi del castagno, unico testimone degli ultimi istanti della sua vita, con il corpo leggermente inclinato su di un fianco e pareva dormisse. Portava solo una maglia di lana sopra la lunga veste nera su cui aveva annodato l’immancabile grembiule. A piedi un paio di zoccoli chiusi. Alla sua sinistra, adagiato in terra, il garbin con le provviste. I suoi settantaquattro anni avevano reclamato una sosta ed il gelo l’aveva poi avvolta. Chiaudrero Francesca da Villarbasse, recita il documento all’anagrafe, vedova di Chiaberto Giuseppe, morì il 12 febbraio 1929 alla ore 19 circa in regione Pissaglio.
Quel freddo gelido di lì a poco se ne sarebbe andato lasciando il posto ad una copiosa nevicata che raggiunse il metro di altezza e che costrinse gli uomini del paese a salire sui tetti delle proprie abitazioni per sgomberarli dal soffice e pericoloso manto bianco.
Liberamente elaborato dal volume di Franco Versino “Fedeltà montanara” Racconti di vita all’ombra della valle di Susa Ed. Del Graffio