LESSICO ALPINO. 3

Data 03/06/2016 | Categoria: Varie

Nord

Dove l'estate non arriva mai, dove la neve resta a lungo farinosa, poi scioglie e rigela in stallattiti di ghiaccio opalino, dove rubiamo gli ultimi giorni di maggio per scendere con gli sci fino al prato verde in fondo alla valle . Nord è l'ombra della montagna, il suo lato oscuro, la faccia che non sorride, cupa e ostile, l'envers.
Nord è parola derivata dall'antico germanico parlato dai vichinghi e poi entrata nelle lingue neolatine in sostituzione del più scomodo "septem triones" (rimasto come settentrione), con cui si indicavano i sette buoi (stelle) che tiravano il grande Carro (l'Orsa Maggiore) e che forniva la direzione di riferimento ai naviganti.
Nord è la terra sconosciuta, ricca di promesse spesso non mantenute, dei migranti subsahariani che attraversano deserti e mari.
Nord è un luogo perso nei ghiacci alla fine del mondo, là dove indica l'ago della bussola e il punto esatto si trova sotto i piedi quando l'ago impazzisce: un passo più in là e si va già verso il Sud.
Nord, oltre che designare il punto cardinale, serve ad indicare il versante delle montagne rivolte a Nord: "La Nord" è, senza possibilità di equivoci, la parete Nord, non la cresta Nord o la valle che sta a Nord o altro. Le Nord sono state per molti alpinisti grandi specchi nei quali hanno cercato e creduto di vedere qualcosa di sè che la quotidianità soffocava, percorsi travagliati, disseminati di miraggi, illusioni e giorni grandi, tra gli ultimi a svanire nel ricordo..

Vuoto

I romani direbbero “noi semmo strani”, infatti ci piacciono la fatica, le levatacce , il rischio (un po’) e persino il “vuoto”, quando invece del vuoto si dovrebbe avere timore ed orrore, come dice il motto latino “horror vacui”. Pare che in greco vuoto si dicesse “chaos” e là dove la Genesi inizia con “In principio era il Cahos” significherebbe appunto “In principio era il vuoto”. Andando ancora più indietro nel tempo, dicono che la parola greca cahos sia derivata dalla pronuncia indoeuropea “cavos”, di cui rimane evidente testimonianza (in mancanza di video su youtube) nelle parole cavo, = vuoto all’interno, cavità, caverna, cavare. In altri termini il vuoto è pieno di ipotesi e congetture circa l’origine del termine, ma resta il fatto che esercita su alcuni umani, insieme all’orrore ancestrale, una forte attrazione, una sfida latente, ed è la forma più simile e comprensibile dell’infinito che ci circonda e nel quale siamo immersi senza riuscire a concepirlo..
Il vuoto è fatto per gli uccelli, creature misteriose, fragili e fortissime allo stesso tempo, che conoscono segreti preclusi agli umani, evolute da un grande rettile del Giurassico che aveva squame e penne e saltava da un albero all'altro, finché i suoi discedenti conquistarono i cieli nuovamente tersi dopo la catastrofe provocata dall'asteroide che colpì la Terra. Noi, come Icaro e altri audaci, dobbiamo farci sostenere da qualche ala artificiale: di aliante, paracadute, deltaplano o tuta alare, oppure possiamo guardarlo, il vuoto, dalla cima di una montagna, dall'orlo di una cresta, dallo strapiombo di una parete, dalla corda tesa su un canyon, dal ponte su un orrido appesi ad un elastico, dal balcone di un terrazzo, da una mongolfiera, su un ottovolante. Il vuoto è la cosa più difficile da descrivere in assoluto (provateci)nonostante si veda benissimo che c'è, e anzi stia lì, intorno a noi, ogni momento. Dicono che un giorno tutto il vuoto scomparirà e diventerà pieno, così che l'universo sarà concentrato in una palla pesantissima: ma per fortuna noi quel giorno non ci saremo e potremo, ancora per qualche secolo almeno, starcene seduti sulla cima di una montagna a guardare tutto il pieno su cui abbiamo camminato, fatto di valli, boschi, praterie, fiumi, strade e paesi, ben separato da quella roba intorno, fatta di nulla, aria, luce, nubi e immaginazione, che per brevità chiamiamo "vuoto".

Donna alpinista

E' una sera del 1966 e all' ordine del giorno del Direttivo del C.A.A.I. -il glorioso sodalizio accademico del Club Alpinino Italiano a cui sono iscritti molti tra i più forti alpinisti dell'epoca- vi è l'esame della candidatura di due donne alpiniste. Da ben due anni le loro domande di iscrizione al C.A.A.I., regolarmente corredate dai rispettivi curriculua richiesti, giacciono inevase nei cassetti dell'associazione. Non si può più tergiversare, e nonostante lo statuto del C.A.A.I. non preveda l'esclusione delle donne, prevale la tesi che lo statuto non ne prevede l'esclusione per il semplice fatto che non ne aveva neppure ipotizzato l'ingresso e dunque si decide che le due alpiniste, in virtù del loro genere, non possono far parte del CAAI. La motivazione infatti non poteva certamente reggersi sull'insufficienza dei loro curricula alpinistici, poiché entrambe vantavano ascensioni che molti alpinisti non sarebbero stati in grado di realizzare. Forse gli alpinisti uomini pensavano che le due donne non avrebbero retto il vino e la grappa scolati alle cene sociali, o che non avrebbero potuto prendere parte alla pisciata di gruppo fuori dai rifugi ... Le due rompiballe erano Silvia Metzelin di Lugano e Bianca di Beaco, triestina, quest'ultima accreditata di sesti gradi da capocordata e considerata, negli anni '50, tra le cinque più forti scalatrici al mondo. Bisognerà aspettare il 1978 perchè il C.A.A.I, ritorni sulle proprie decisioni e riconosca alle due donne, con qualche scusa, il dirittto a far parte del gruppo. Probabilmente alle due signore non importava un tubo di partecipare a cene sociali e autocelebrazioni, quanto sfidare quel mondo chiuso, autoreferenziale e retrogrado.
Ma come, il 1978?! Perchè ci volero tanti anni? Eppure già ià a metà degli anni '70 Tiziana Weiss, anche lei triestina, classe 1952, aveva scalato a comando alternato le vie Tissi alle Torri Venezia e Trieste, la via delle Guide al Crozzon, la Solleder e la Castiglioni al Sass Maor, le vie Fox e Aste alla cima d'Ambiez e decine di altre vie nelle sue Alpi Giulie. E all'estremo opposto dell'arco alpino, negli Ecrins, in quegli stessi anni, la sedicenne e ancora sconosciuta Destivelle saliva la Via Couzy-Desmaison al Pic d'Olan, la via Devies-Gervasutti all' Ailefroide Occidentale e la diretta Americana al Petit Dru nel Bianco. Forse ci volle la morte di Tiziana Weiss, alle Pale di San Martino, in quel 1978, per far aprire le porte del C.A.A.I. anche alle donne.
Dopo di loro il mondo della montagna, anche quella difficile, ha visto crescere la partecipazione delle alpiniste. L'ultima roccaforde maschile a cedere fu quella delle Guide, nel 1984, quando Renata Rossi, della Val Bregaglia,divenne guida Alpina, la prima in Italia e una delle prime in Europa.
Poi vennero le gare, e lì i corpi delle donne si fecero più visibili ed espressero la scioltezza e l'eleganza che appartiene a loro. Chi era alla parete dei Militi di Bardonecchia nel luglio del 1985 non potrà mai dimenticare la grazia, la bellezza, la sicurezza, di Catherine Destivelle alle gare di Sport Roccia, a disputarsi la finale con l'altrettanto brava Luisa Jovane. E sì, ammettiamolo: sia che fossimo lì da soli, sia che mogli o fidanzate fossero con noi, tutti quanti avremmo desiderato averla almeno come capocordata.Quando poi, dopo quindici anni di arrampicata sportiva, tornò all'alpinismo con le solitarie ai Drus, all'Eiger, al Cervino, alle Jorasses, capimmo che era finito il mito del cavaliere che uccide il Drago per salvare la damigella impaurita, delicata o dormiente: anche una donna poteva salire, persino in solitaria e d'inverno, dov'erano passati, con gesta epiche e tragiche, uomini d'acciaio inox come Bonatti e Desmaison.
E non potevano mancare le americane, anche se la loro storia è un po' più recente. I loro nomi sono legati soprattutto alle imprese nella Yosemity Valley: tra le altre Beverly Johnson, Steph Davis (di loro ho scritto qualcosa a parte) e Lynn Hill, che nel 1993 per prima fece in libera i 33 tiri del Nose, compresa la fessura dell'ultimo grande tetto, dove nessun uomo, per quanto scimmiesco e mostruoso, era ancora passato. E l'anno dopo, tanto per confermare che non era stato un caso, la rifece in 23 ore, cioè in un giorno, cosa mai riuscita prima.

E poi ci sono state le scalatrici d'alta quota, come Wanda Rutkiewicz, Chantal Maudit, Nives Meroi, Edurne Pasaban, Halison Hargreaves, Gerlinde Kaltenbrunner e le giapponesi, coi loro nomi ostici per noi.
E prima, prima di tutte, qualche pioniera, spesso di estrazione altoborghese (ma non sempre, vedi Paula Wiesinger),accanto ai loro uomini, fatto quasi obbligatorio a quei tempi: Louluz Boulaz, Paula Wiesinger, Mary Varale, Ninì Pietrasanta, e ancora più lontano nel tempo Henriette d'Angerville, prima donna sul Monte Bianco nel 1838, Alessandra Boarelli e Cecilia Fillia, prime sul Monviso nel 1864, Lucy Walker, prima donna a scalare il Cervino nel 1871.
E ancora le russe, le cinesi, le australiani, le neozelandesi e le sconosciute e tutte quelle che per ignoranza ho dimenticato.
E infine le donne alpiniste che ci hanno accompagnato e ci accompagnano per sentieri e salite più o meno difficili, nostre amiche o compagne, più "normali" di quelle citate e mai comparse sui libri, ma anch'esse tenaci: le Paole, le Silvie, le Marie, le Anne e tante, tante altre: c'è un nome d'alpinista donna di sicuro per ogni Santa del calendario.



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