Il presagio: "La Cantina dei Calzolai"

Data 22/10/2011 | Categoria: C'era una volta

Il presagio: la “Cantina dei Calzolai”

C’è un paese della valle di Susa, arroccato su di un ripido pendio, che, durante i miei giri alla ricerca di posti insoliti, ha destato in me, più di altri, un senso di desolazione e sconforto: questo paese è Maffiotto posto al temine della strada che da Condove sale alla borgate montane. Tutti si fermano alla chiesa di Prarotto, punto di partenza per la Patanua e la Lunella; nessuno va oltre non essendoci veramente alcuna ragione per proseguire.
Accanto ad alcune case ristrutturate ve ne sono altre in completo stato di abbandono, crollate: molte. Lo sviluppo abitativo e la grande chiesa così insolita per un borgo montano, persino un ampio, abbandonato cimitero, testimoniano un passato diverso e ci ricordano come tanta gente vivesse di duro lavoro; montanari che con grandi sacrifici restavano legati alla loro terra che pur sempre dava loro qualcosa per sopravvivere. Una cosa, tra tante, ha destato la mia curiosità: una scritta su di una casa, tuttora ben conservata, che recita: “ Cantina dei Calzolai”.
Questa storia vera è ambientata a Maffiotto e la trama si dipana tra la fine dell’800 e l’inizio del 900.

La casa è vecchia, ma ancora in buono stato. La cantina e la stalla hanno il pavimento in terra battuta mentre al piano rialzato vi è un vano grande ed un altro più piccolo con un lungo ballatoio in cemento rifatto da tempo in sostituzione di quello antico in legno. Sul tetto non ci sono più le pesanti lose, ma le tegole rosse, mentre tutt’intorno crescono rigogliose le ortiche. Il fabbricato si affaccia sulla via maestra che conduce al cimitero; sulla facciata rivolta al sorgere del sole spicca un’elegante scritta in nero su fondo rosa: “Cantina dei Calzolai”.
Quando a Maffiotto, sul finire dell’800, abitavano più di 100 famiglie, in locali come questo si poteva mangiare, bere e giocare a carte. Angelo Vair aveva una moglie, Maria e sette figli da mantenere; oltre alla conduzione del locale, faceva appunto il calzolaio. Possedevano anche un altro piccolo fabbricato per la rivendita di sale e tabacchi, più alcuni campi a ridosso dell’abitato.
Al piano rialzato la stanza più grande era la trattoria, mentre il laboratorio di calzoleria era alloggiato nel vano più piccolo dove confezionava soprattutto zoccoli con tomaia in cuoio e suola in legno. Fu il più piccolo dei suoi sette figli, Giuseppe detto Pinot, a ereditare l’arte paterna, anche se il mestiere lo praticava poco dovendo governare vacche e lavorare i campi. Partito per la grande guerra, era un ragazzo del 99, senza un minimo d’addestramento, Pinot sul fronte patì la fame, il freddo ed il fango delle trincee. Raccontava come quando fu mandato al massacro per evitare la morte sicura, lui e altri si videro costretti ad infilarsi sotto ai corpi dei compagni e così si salvò.
A guerra finita Pinot, come altri, ritornò a Maffiotto percorrendo la mulattiera che parte da valle. Più si avvicinava e più cresceva il profumo di casa; il cuore batteva forte al pensiero di riabbracciare la propria bella. Lei si chiamava Emilia; anche lei cresciuta in una famiglia contadina numerosa; come tante altre sue compagne raccoglieva l’erba sulla montagna sopra Maffiotto lungo declivi pericolosi ed insicuri spostandosi con incoscienza da un posto all’altro ad un passo da gole e burroni. Da ragazza Emilia conobbe la dura vita dell’emigrante: partì per la Francia con la speranza di trovare un lavoro meglio pagato per poter inviare alla propria famiglia un aiuto economico per tirare avanti. Oltralpe ci andò naturalmente a piedi valicando di nascosto il Monginevro, alla larga dai doganieri. Raggiunta Briancon trovò lavoro presso una fabbrica di seta.
Com’era lontana Maffiotto, la sua gente, il suo amore. Si sentiva perduta in quei vasti fabbricati. E così, con una manciata di franchi in tasca, fece il percorso inverso e rientrò al villaggio dove coronò il suo sogno d’amore con Pinot stabilendosi in una casa del villaggio. Contadini, margari, come tutti e, a tempo perso, Pinot faceva anche il calzolaio. Poi nacquero due figli: Germina e tre anni dopo Angelo. Un fratello di Pinot, quando prese moglie, abbandonò la montagna per trasferirsi a valle; anche le sorelle maritate si allontanarono da Maffiotto. Pinot, dopo la scomparsa del padre e della madre e la partenza del fratello e delle sorelle, nutriva la speranza di rilevare le loro quote di eredità. Sapeva che per venirne in possesso lo attendevano anni di sacrifici. Prima rilevò il bene primario: la cantina dei calzolai e la vecchia trattoria fu trasformata in abitazione per sé e la sua famiglia; più a valle ereditò anche altre due stanze con un tinaggio annesso ad una bella vigna.
Con l’approssimarsi dell’estate conducevano le vacche nei pascoli comunali presso un alpeggio in località Artrait a c.ca 1700 mt. di altitudine. Prima di trasferirsi all’alpeggio c’era la vigna a valle da curare; si zappavano i filari estirpando le erbacce, poi si legavano le viti con ramoscelli di salice; più avanti si doveva dare il verderame.
Si era allo scadere degli anni 30, nel mese di maggio e Germina e Angelo aiutavano i genitori nella vigna. La famiglia si era intrattenuta nella piccola frazione per circa una settimana. Giunto il mercoledì i due giovani ragazzi diventarono euforici perché, il giorno dopo, a Maffiotto si festeggiava l’Ascensione. Al mattino, dopo la Messa, ci sarebbe stata la processione, mentre al pomeriggio si danzava e si faceva festa: una rara occasione di svago. I discorsi dei ragazzi, chini al lavoro, erano tutti sulla festa che li attendeva al paese. Così, a sera, corsero a riporre gli attrezzi credendo di rientrare a Maffiotto prima di cena. Mamma Emilia, però, si sentiva irrequieta sin dal mattino e non sapeva spiegarsene il motivo. C’era qualcosa nell’aria che la preoccupava e pertanto decise di posticipare il rientro. Disse ai figli e al marito che avrebbero consumato la cena lì; ma i due ragazzi iniziarono a premere sui genitori affinché tutti si incamminassero per non essere sorpresi dal crepuscolo lungo la mulattiera che conduce a Maffiotto. Quell’insolita sensazione, però, in Emilia si era fatta più forte, come di un presagio oscuro che incombeva sulla famiglia. Di una cosa si sentiva sicura: doveva convincere i suoi cari a non rientrare, a trascorrere ancora una notte presso la vigna. Ma i figli protestarono: “ Perché dormire ancora qui, quando a Maffiotto abbiamo letti più comodi”, dicevano. “Se vuoi rimanere qui, rimani: questa sera c’è già festa. Tu e il babbo ci raggiungerete domani”. Ma la madre risoluta: “Guai a chi si muove di qui”.
Germina e Angelo, cupi e testa china, terminata la cena andarono a letto, anche se il sonno non veniva; la discussione della sera aveva incupito gli animi e la veglia si protraeva tesa e silenziosa.
I primi lampi, accompagnati da fragorosi tuoni, squarciarono il cielo coperto e livido illuminando le sobrie pareti della stanza dove dormivano; poi le prime gocce, solitarie e pesanti, fecero da preludio ad un più rumoroso scrosciare della pioggia. Pinot chiese alla moglie se l’ostinazione con cui si era opposta al rientro fosse dovuta al temporale. “Non lo so” rispose la donna “ è stato qualcosa più forte di me”.
Erano ancora svegli quando udirono dei passi veloci che si avvicinavano. “Pinot, Pinot, apri, Pinot”
Alla luce flebile della lanterna Pinot riconobbe il volti del nipote Giovanni e di Gilin, fratello di Emilia. “Dovete rientrare immediatamente a casa perché ci sono stati i ladri. Le porte sono state forzate e la vostra roba è a soqquadro”. Non ci fu bisogno di altre parole. Radunate le poche cose, chiusero l’uscio ed il buio li inghiottì. Il temporale si era placato e sulla montagna si udiva l’eco degli ultimi tuoni. Ora cadeva una pioggia sottile. Poco prima di arrivare a Maffiotto Giovanni e Gelin iniziarono a svelare a Pinot e a Emilia ciò che era veramente accaduto. Un fulmine si era abbattuto sulla loro abitazione, quella della cantina, incendiandola. Era ancora in balia del fuoco quando si erano incamminati per avvisarli. La soletta aveva ceduto; le fiamme, una volta divorato paglia e fieno, si erano velocemente propagate al tetto. Giunti nei pressi del paese ai loro occhi si aprì uno spettacolo agghiacciante; il alto, si levava ancora nella notte il barbaglio delle fiamme. Pinot ed Emilia ebbero un sussulto al cuore.
Quando in tarda serata, poco prima delle dieci, un fulmine aveva colpito la cantina dei calzolai, le campane del paese avevano suonato a stormo per chiamare a raccolta la popolazione; secchi, mastelli, passati di mano in mano, correvano lungo una catena umana sino all’abitazione in fiamme.
I primi uomini avevano tentato di appoggiare una scala per facilitare lo spegnimento del tetto, ma il calore e il pericolo li aveva fatti desistere. Lunghe lingue si levavano oramai verso il cielo.
Quando Pinot ed Emilia giunsero con i propri figli nei pressi della loro abitazione, questa bruciava ancora. La copertura, tranne la pesante trave di colmo, era crollata invadendo le stanze sottostanti. Dalle macerie un denso fumo acre saliva nell’oscurità e i vicoli erano pervasi dal lezzo del bruciato. Emilia, avvicinatasi, piangeva con le mani nei capelli, disperandosi. Il marito, senza parole divenne pallido e si sentì mancare; alcune conoscenti invano cercarono di dare loro un pò di conforto.
Quando le operazioni di spegnimento furono terminate, la gente si ritirò nelle proprie baite. Solo alle prime luci del giorno Pinot capì veramente cosa era accaduto.
La solidarietà fu cosa naturale. Quella famiglia aveva bisogno di aiuto e numerosi uomini del paese si rimboccarono le maniche. I lavori di rifacimento del tetto iniziarono subito; la trave portante, il fré, non era stata intaccata dal fuoco; per sostituire i zantè, i travi trasversali che reggono le lose, furono tagliati dei larici nel bosco. Terminata l’orditura del nuovo tetto vennero ingaggiati due posatori di lose che, con l’aiuto di alcuni volontari, sistemarono a regola d’arte la copertura. Pinot ogni tanto scendeva in cantina a prendere un fiasco di vino da offrire ai suoi amici. Oggi tu aiuti me, domani io aiuto te; si beveva una volta insieme e le cose erano sistemate.
Pinot ripensò più volte allo strano comportamento di sua moglie: le dovevano la vita. Se fossero stati sorpresi dal fulmine nella stanza dove riposavano insieme ai figli, non avrebbero avuto scampo da una fine orribile. A seguito di quegli eventi l’istinto femminile di Emilia fu sempre tenuto in grande considerazione dai suoi familiari; anche quando la donna suggeriva loro decisioni un poco strane, queste furono sempre accettate senza discussioni.

Liberamente elaborato dal volume di Franco Versino "Fedeltà Montanara" Racconti di vita all'ombra della Valle di Susa Edizioni Del Graffio




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